HAPPY DAYS
liberamente ispirato a Beckett
l’ostinazione della vita, l’umano attaccamento all’esistenza anche in condizioni estreme
Una donna, bloccata in una condizione di estrema solitudine, fugge dal suo presente raccontandosi la gioia nel suo chiacchiericcio, imprigionata in una vita di incomunicabilità
Progetto e regia Isabella Caserta anche interprete con l’attrice sorda Alessandra Marigonda (che recita in LIS) e la danzatrice Martine Susana, che danno voce,
gesti e corpo alla stessa donna scissa in tre
produzione Teatro Scientifico
Hanno scritto:
“Happy Days: la denuncia della condizione femminile e dell’incomunicabilità.
La volontà di vivere fino all’ultimo, anche di fronte a un’esistenza che non può essere né vissuta appieno né raccontata: questa la cifra stilistica portata in scena con Happy Days, nuova produzione del Teatro Laboratorio di Verona. Isabella Caserta, regista e voce in scena dello spettacolo, ha infatti deciso di aprire la nona edizione del Festival Non C’è Differenza con un classico di Samuel Beckett, scavando a piene mani nel vuoto dell’esistenza.
Inizialmente osteggiato dalla critica alle sue prime rappresentazioni, Happy Days è oggi inserita nella lista delle 40 opere teatrali da vedere almeno una volta nella vita secondo The Indipendent. Beckett, infatti, rielabora il cosiddetto “dramma di conversazione” svuotandolo di tutte le sue componenti significative, fino a renderlo specchio dell’umana disperazione. La coppia piccolo borghese formata dalla moglie Winnie, sotterrata dalla vita in giù, e dal marito taciturno di lei Willie, persegue una monotona vita di frivole chiacchere e inattività. Tali giornate, scandite dallo scocco delle campane e insopportabili ai più, vengono da Winnie celebrate come “felici”.
Inaugura dunque la rassegna, dedicata all’abbattimento di tutte le barriere fisiche e mentali, questa riduzione beckettiana che, portando in scena una donna (Alessandra Marigonda) costretta in sedia a rotelle, denuncia la solitudine nella solitudine: la disperazione di ciò che nemmeno può essere urlato da chi, muto, è costretto a tacere del proprio desolante stato di emarginazione. Sullo sfondo, un misterioso manichino legge un giornale dandoci la schiena.
Ci troviamo volutamente costretti alla difficoltà di comprendere non solo un’opera già di suo complessa, sfuggente, ma anche di leggere la lingua dei segni: Isabella, in primissimo piano, di spalle per tutta la durata del lavoro, traduce in italiano gli estratti che la protagonista, agghindata, recita in LIS.
A completare la delicata grammatica narrativa di Beckett, la proiezione del quadro di Silvano Girardello, in cui la protagonista è immersa in un cumulo di terra che atto dopo atto ne impedisce la mobilità.
“Lei è bloccata all’interno di questa sua situazione: cerca di uscire, si racconta e parla cercando di crearsi giorni felici nello scorrere di giorni sempre identici, sempre uguali in una solitudine con un uomo che non le risponde perché muto, immobile e mai con lei“, spiega Isabella.
Di tutte le opere beckettiane, Happy Days è l’unica a dedicare particolare attenzione al tema del matrimonio. Sebbene infatti ne avesse già iniziato la stesura nel 1960, l’opera vedrà la luce nel 1962. Non è dunque da escludere l’ipotesi di Cascetta, secondo cui il matrimonio tra Beckett e la sua compagna Suzanne Deschevaux-Dusmenil abbia influito nella costruzione dell’opera.
Winnie è condannata al futile e ossessivo ottimismo, marcato dalla cantilena “Oh, questo è un giorno felice, questo sarà stato un altro giorno felice. Dopotutto. Finora”, estrae metodicamente tutto il necessario per “tenersi in ordine”, un vero e proprio cerimoniale che assorbe le sue energie: pettine, dentifricio, spazzolino da denti, medicinali, rossetto e una lametta per le unghie. Da questo forziere della memoria, sostegno indispensabile per l’esistenza del personaggio, Winnie non estrae mai tutto, giacché “chissà che tesori” vi sono nascosti. Eppure, tutti i suoi averi stanno svanendo: le medicine sono terminate, del dentifricio ne rimane poco e l’ombrello che la protegge dal sole e dalla pioggia è “ormai sbiadito”. Resta un revolver, nuovo di zecca, mai usato per tutta l’opera. Giacché metter fine a queste belle giornate non si può.
Secondo alcuni ispirato dalla visione del film surrealista Un Chien Andalou del regista Luis Buñuel, Happy Days è per stessa ammissione dell’autore “la cosa più terribile che potesse capitare a chiunque”. Non poter dormire, essere svegliati da un gong che scandisce l’esistenza e sprofondare sempre di più nella viva terra è una condizione che “solo una donna avrebbe potuto affrontare cantando”.
L’umorismo graffiante dell’opera si tramuta così in denuncia della condizione femminile, di volta in volta condannata all’oblio della memoria solo perché non più giovane, non più interessante, non più ascoltata. Nella visione di Isabella Caserta, la denuncia della miseria si trasforma anche in denuncia dell’incomunicabilità. Se infatti non vi fosse una voce di scena poco o niente di tutto ciò sarebbe per noi comprensibile. La misteriosa figura in carrozzella ci ricorda chiaramente che nelle nostre comunità vi sono tante, troppe donne costrette a vivere di ricordi per fronteggiare un presente di amara solitudine, segnale di una disgregazione del tessuto sociale che porta ad abbandoni ed esistenze isolate.
Ed è così che l’umorismo prende sostanza nella realtà, lasciando lo spettatore in bilico tra i sentimenti beckettiani della noia e del fastidio, per essere costretto a prendere atto che, ancora oggi, le differenze sulla distribuzione sociale dei “giorni felici” ci sono e continuano ad essere replicati anche fuori dal teatro, tutto attorno a noi”.
(Leonardo Delfanti, PAC, paneacquaculture.net18 maggio 2023)